Febbraio1956: Bertolt Brecht è a Milano, al Piccolo Teatro, per assistere alla prima della sua Opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper) musiche di Kurt Weill, nella traduzione di Ettore Gaipa, Gino Negri e Giorgio Strehler, regia di Giorgio Strehler, genio del teatro italiano. Purtroppo le cattive condizioni di salute in cui versa il drammaturgo sono presaghe del fatale infarto che lo colpirà il 14 agosto dello stesso anno. Nel frattempo lo spettacolo i cui interpreti principali sono: Giusi Raspani Dandolo (signora Pechum), Mario Carotenuto (Peachum), Milly (Jenny delle Spelonche), Tino Carraro (Machie Messer) è subito un successo. Così racconta Strehler: "La sera della "prima", l'emozione della presenza di Brecht, giunto da Berlino via Chiasso insieme alla figlia e a Elisabetta Hauptmann Dessau. È tra il pubblico, con la sua sahariana da operaio; vediamo che si diverte, ride, applaude. Quando sale sul palcoscenico, per ricevere la sua parte di applausi, è pallido. La malattia, che di lì a qualche mese lo porterà alla tomba, ma anche l'emozione. E quando lo raggiungo nell'ufficio di Grassi, e gli dico qualcosa in tedesco per scusarmi di certe imperfezioni della "prima", vedo che due lacrime gli scendono dagli occhi, due lacrime non dovute al fumo del suo sigaro Virginier. Dice che ha trovato lo spettacolo stupendo..." (Io, Strehler. Una vita per il teatro. Conversazione con Ugo Ronfani - Milano, Rusconi, 1986.)
Lo spettacolo fu rappresentato quando già il Piccolo Teatro viaggiava sull' onda di molte affermazioni e dopo una memorabile messa in scena di "El Nost Milan" di Bertolazzi ma la scelta da parte di Giorgio Strehler e Paolo Grassi di rappresentare un testo di Brecht avrebbe contribuito a dare un grande respiro europeo alla scena nazionale e, in particolare, al Piccolo Teatro di Milano, da loro fondato nel 1947 con uno profondo sguardo rivolto alla ricostruzione culturale di una Italia appena uscita dalle ceneri della II Guerra Mondiale.
Nel saggio citato, così Strehel rispose al critico Ugo Ronfani alla domanda circa i maestri che avevano segnato le sue prime scelte teatrali – tra cui l'ultimo, in ordine di tempo, della triade ( Copeau e Jouvet n.d.r) era di sicuro Brecht – circa l'accusa di brechtomania da parte di una certa intellighenzia di allora che imputava a lui e a Grassi di essersi chiusi "nel ghetto dell'ideologia epico-popolare, mancando così ad appuntamenti importanti" e, dunque, di esemplificare in cosa fosse consistito l'incontro con Brecht: "Non un accecamento, non un obnubilamento. La nostra brechtomania è stata una invenzione degli avversari nel clima particolare della guerra fredda. Ci siamo accostati al teatro di Brecht con i lumi della ragione. Al termine di un mio, di un nostro processo di formazione che ci portava inevitabilmente a scoprire la straordinaria importanza, in quel contesto culturale, sociale e politico, della sua drammaturgia. Che cosa mi ha insegnato Bertolt Brecht? Mi ha insegnato, semplicemente, a fare meglio di quanto non l'avessi fatto prima un "teatro umano". Un teatro che, divertendo, aiutasse gli uomini ad essere migliori. Mi ha insegnato la dignità di lavorare nella società e per la società, dentro la storia e i problemi del mio tempo. Tutto questo, tu dirai, me lo avevano già insegnato Copeau e Jouvet. È vero, ma in una dimensione che era ancora quella, circoscritta, del mondo del teatro. Mentre con Brecht la dimensione era quella del "teatro del mondo". E ancora nel corso dell'intervista: "La nostra scommessa consistette nel voler dimostrare invece quanto fosse poetico e umano il teatro di Brecht nel suo impegno per il riscatto sociale, e come la sua posizione ideologica fosse completata, direi travalicata, dalla sincerità e dalla densità del messaggio poetico e umano. Ci interessava, ovviamente, il progetto politico di Brecht, ma anche il poeta della scena. Eravamo convinti che Brecht non si fosse abbassato a usare la scena come un volgare strumento per fare politica o, come allora dicevano gli avversari, per fare propagande. Che la sua teatralità nascesse non da una dialettica delle idee, forzatamente inefficace sul piano artistico, ma dall'interno di autentiche situazioni drammatiche, dalla più profonda dialettica dei personaggi, colti nella loro umana verità. Il successo straordinario dell'Opera da tre soldi mostrò che non ci eravamo sbagliati.".
Lo spettacolo si afferma in una Italia della ricostruzione, dove una città come Milano la fa da padrona sia per gli impulsi innovativi attinenti il mondo lavoro, dell'industria, che per quelli di indole culturale e, nel senso dell'innovazione appunto, al Piccolo Teatro spetta un ruolo preponderante proprio per le scelte artistiche che, nel corso degli anni, lo identificheranno come il teatro che più di ogni altro ha allargato i propri confini guardando all'Europa. L'idea era propria quella di essere un teatro con un repertorio variegato: internazionale, ma allo stesso tempo legato alle proprie radici. D'altronde la Milano degli anni successivi al dopoguerra è città emblema della Resistenza partigiana, è città operosa, con una progettualità che guarda al futuro e vero motore per la rinascita del paese. Per quanto attiene il teatro, l'apporto di Strehler è fondamentale e innovativo, poiché inaugura la figura del regista in termini moderni. Non più un teatro dove il capocomico o il primo attore ne sono il fondamento ma un un teatro dove vige il "terzo occhio" del regista al di là e, nel contempo, al di qua della scena. Il regista che deve comportarsi come un demiurgo, traghettando gli attori e il pubblico in una osmosi completa e nell'idea di un teatro di più ampio respiro e coralità, che si avvicina al concetto dell'abbattimento della "quarta parete". Tali scelte sono profondamente nuove e favoriscono, pertanto, l'affermazione della regia contro le obsolete figure attoriali di stampo ottocentesco. Tra l'altro nel resto dell'Europa e in America iniziavano, per quanto in sordina, nuove esperienze teatrali (es: in America il Living Theather, in Europa Jerzy Grotowsky) che tentavano di rivoluzionare gli usati e per molti versi imbalsamati canoni del teatro ufficiale, privilegiando l'uso del linguaggio del corpo rispetto a quello della parola, spesso del tutto abolita in questi nuovi modi di rappresentare. Il teatro di Strehler , invece, si serve della parola, del corpo, della gestualità dell'attore, della suggestione delle atmosfere, per enucleare le tematiche messe in scena, in cui si rintraccia un costante interesse per l'uomo mettendolo in relazione, di volta in volta, con la società, con se stesso, con la storia, con la politica. Un teatro necessario, allora, che si concentra sulla umana poetica dell'esistere.
In questo senso il teatro "epico" di Brecht con la sua universalità, con la tematica che viene esemplificata con cartelli, proiezioni o canzoni e con l'innovativo concetto di "straniamento" degli attori che si allontanano dalla canonicità dell'immedesimazione, nella messinscena di Strehler mantiene tali caratteri che si accordano con le profonde analisi dell'essere umano e dove il regista vuole mostrare agli spettatori italiani quale "poeta della scena" sia Brecht.
Nell'Opera da tre soldi campeggia un mondo di gangster e derelitti, sullo sfondo di una fumosa Londra vittoriana ( Brecht si era ispirato, come traccia, alla settecentesca Beggar's Opera di John Gay) con gli splendidi Songs di Kurt Weill. La genialità del drammaturgo viene subito messa in luce in questa magnifica piéce affollata di tanti personaggi che rappresentano le mille sfaccettature dell'animo umano e che ne fanno, per questo, anche una grande opera corale, attraverso l'ironia della satira sociale che è metafora di un mondo in disfacimento come quello della Germania post Repubblica di Weimar e dunque alle porte del Nazismo. Al di là di un intento anche pedagogico da parte del drammaturgo tedesco, nel testo c'è molto di quella poetica "umana" e di quella spettacolarità che Strehler ritrova e sottolinea nella sua messinscena del 1956 decretando in Italia il successo ormai storico dello spettacolo, tanto che ne fece una riedizione, ancora di successo, nel 1972 con Domenico Modugno, Giulia Lazzarini, Gianni Agus, Milva. Dunque uno spettacolo di estrema importanza storica, si diceva, che ha contribuito alla più ampia diffusione del teatro brechtiano in Italia, ad aprire una finestra sull'Europa di cui oggi si è parte integrante e ad indagare una volta di più sull'uomo, perché come lo stesso Brecht affermava: "Nell'uomo c'è molto, noi diciamo: dunque si potrà far molto dell'uomo." (I Capolavori di Brecht, Torino, Einaudi, 1963)